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martedì 31 ottobre 2023

L’AVVENTATEZZA DELLO PSICOANALISTA RISPETTO ALLA LETTERATURA


L’atteggiamento degli psicoanalisti nei riguardi della letteratura è un misto di attrazione e di timore.

Timore perché davanti all’enorme fenomeno che è rappresentato dalla letteratura, nei secoli, e la conseguente, altrettanto fondamentale, crescita della critica, l’analista si considera, non a torto, un neofita piuttosto sprovveduto e ignorante.

Ma l’attrazione è forte: la letteratura rappresenta, attraverso le proprie varianti specialistiche (soprattutto, ma non esclusivamente, la prosa e la poesia) un polo seduttivo troppo forte. Questa seduttività è ovviamente basata sul fatto che la letteratura è anzitutto un prodotto esclusivamente umano, nel quale le vicende umane (o metafore di queste) ne sono il nucleo fondante ed è espressa attraverso la comunicazione linguistica. Tutto ciò riguarda, in modo determinante, anche il campo delle teorie e dei comportamenti relazionali che contraddistingue quel corpus sempre più variegato che chiamiamo Psicoanalisi. 

In altri termini: la letteratura si basa sul linguaggio e sulla narratività. La seduta psicoanalitica si basa sulle parole (anche se c’è qualche suggerimento che riguarda la presenza fisica di ambedue i partecipanti). Ma anche i sogni e le fantasie, che sono fondamentali nell’edificio analitico, sono una mescolanza di elementi visivi e di elementi linguistici. 

Ora quello della narrazione e cioè del racconto di vicende, soprattutto relazionali, diventa, secondo me, l’elemento di connessione tra la letteratura e la psicoanalisi.

In ogni caso affrontare l’enorme universo letterario (non solo nella produzione ma anche nella fruizione) da un punto di vista analitico è solo un aspetto marginale di una estesissima area relativa non solo ai giudizi (la cosiddetta critica) ma anche proprio della fruizione. Chi e come si leggono i libri? Quali le resistenze alla lettura? Quali le preferenze? E poi, come sottofondo, tutto l’aspetto della diffusione (cioè il marketing editoriale) ed anche dell’utilizzazione nella formazione e nell’istruzione.

Ovviamente le variabili sociologiche relative ai fruitori e cioè chi sono, in quale ambiente di formazione e di esistenza vivono, quale l’ideologia che condividono ecc.Ma gli stessi problemi si pongono per gli autori ed inoltre per l’apparato editoriale.

In tutto questo quale possa essere l’apporto psicoanalitico?

Dobbiamo tenere conto che l’approccio psicoanalitico, nato e perdurante nel versante terapeutico, si è costituito anche come una psicologia generale, di base. Non solo relativa al gioco delle emozioni, dei sentimenti, delle convinzioni, ma come spiegazione totalitaria di tutte le manifestazioni e i comportamenti umani.

Il totalitarismo psicoanalitico è sempre stato oggetto di critiche. E non solo da parte di altre impostazioni psicologiche, terapeutiche, ma anche da parte della neurofisiologia, della sociologia fino alla filosofia.Però la psicoanalisi è un sistema complesso ma anche abbastanza coerente, che utilizza vissuti soggettivi, comuni a tutti, che difficilmente vengono spiegati, nella loro completezza, da altre impostazioni.

Cioè nella psicoanalisi tutto ciò che è umano è spiegabile. Quindi il livello di seduzione è molto forte, proprio perché ancorato alla totalità del mondo soggettivo di ognuno.

E, ovviamente c’è chi critica questa impostazione per vari motivi ma noi analisti reagiamo usando proprio i nostri strumenti, affermando che i rifiuti della psicoanalisi non sono che resistenze per la sua radicalità.Per questa seduzione vediamo allora come vari “letterati” si sono avvicinati più o meno totalmente alla psicoanalisi stessa.

(Per un’interessante esame dell’incidenza psicoanalitica nella letteratura italiana e più in generale internazionale vedi –G.Alfano,S.Carrai, “Letteratura e psicoanalisi in Italia” Carrocci ed.2019- Altri testi fondamentali sono- E.Gioanola “Psicanalisi e interpretazione letteraria”Jaca Book 2017- e per un panorama più ampio, anche se datato-M.David”La psicoanalisi nella cultura italiana”Boringhieri 1966).

La mia posizione personale nei riguardi della psicoanalisi non è affatto totalitaria. La considerò però un modello, sia pure provvisorio, che ha una completezza, profondità ed adattabilità esplicativa dei processi psichici e delle loro conseguenze sui comportamenti umani che, attualmente non ritrovo in altre impostazioni, spesso troppo fenomenologiche, con scarse ipotesi sulla complessità delle persone.

Come avviene nell’universo scientifico poi altri modelli più esaustivi e verificabili potranno superarla o  ampiamente, integrarla. La ristrettezza culturale degli psicoanalisti (sono uno di questi…), non riguardano tanto le scarse letture extra-disciplina che emergono dalle bibliografie degli scritti analitici, iniziando da un Freud che rivela una cultura limitatamente liceale ( cita esclusivamente Shakespeare, Goethe, Schiller e un po’di Nietzsche), ma dall’avere considerato le narrazioni del paziente ( e quindi quelle dell’analista) come appartenenti ad un unico dominio esclusivo, quello della seduta.

Eppure Freud aveva ottenuto, non a caso, un premio Goethe di Letteratura tedesca!

Quando nella sua, dobbiamo ahimè ammetterlo, aspirazione totalitaria a fare della psicoanalisi la “scienza delle scienze”, si imbatte nella letteratura ( mi riferisco ovviamente al “Poeta e la fantasia”), il modello proposto è un po’ troppo semplificato e si base su di un presupposto da psicoanalisi da salotto: la fantasia (e quindi specificatamente la narrazione) è il frutto del cosiddetto desiderio represso del poeta.

Lasciando stare per ora il problema di questo evanescente termine “desiderio” ( sul quale un noto giocoliere della psicoanalisi, Lacan, ha fatto le proprie fortune, assieme all’altro termine evanescente “l’Altro”…), resta il problema di come narrazioni, ripetute nel corso di annose sedute del paziente, più che svilupparsi nell’innovazione, si ripetono nella loro struttura sia semantica che sintattica.

Ma Freud, e qui emerge, come in altre parti della costruzione psicoanalitica, tutta la sua genialità innovatrice,e cioè nell’ipotesi di una ripetizione che non ha mai fine , ciò che richiama l’autopoiesi di Maturana e Variela. Purtroppo Freud deve attaccarci un’etichetta funerea , attribuendola all’ “Istinto di morte”, senza voler capire che, forse, si trattava di un meccanismo psichico e non di una mitica pulsione. 

Un Freud che aveva buttato fuori, giustamente, Jung per le sue tentazioni metafisiche, con questa storia dell’ “Istinto di morte” rischia lui stesso di ricadere nella medesima tentazione.Ma questo è un altro discorso.

Qui ci interessa capire come la narrazione in seduta ( o meglio le due narrazioni complementari paziente-analista) appartengano, non tanto per le conseguenze, bensì per i presupposti, ad un’area più ampia e globale che è quella delle narrazioni generali.E qui la letteratura (prosa, poesia, teatro ecc.) ne rivendicano (ahimè giustamente per noi analisti…) la priorità e il dominio.

Sono millenni, che sotto tutte le latitudini e tra popoli e razze diverse , le letterature prosperano.

Rispetto ai poco più di cento anni di dialoghi pazienti-analisti, ci sono ben altre dimensioni .


















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